Vanna Iori

Su Dire: “Ci si può sentire a casa in mezzo ai topi?”

Su Dire: “Ci si può sentire a casa in mezzo ai topi?”
14/07/2016 | Categorie: Dire, Media Press


Il mio articolo di oggi, mercoledì 13 luglio 2016, pubblicato sulle pagine dell’agenzia di stampa Dire.

 

“Ventincinque in cinque minuti!”, esclama un bambino, attorniato da una decina di suoi coetanei che contano per gioco i topi in mezzo a un cumulo di spazzatura nel quartiere periferico di Tor Bella Monaca a Roma.

Le immagini che sono rimbalzate in questi giorni sui tg e sui giornali possono e devono essere lette in controluce e devono soprattutto indurre a una riflessione sul concetto di domiciliarità, sul “sentirsi a casa” nel quartiere. Ci si può sentire a casa in mezzo ai topi?

La dimensione della domiciliarità è un elemento qualificante del governo locale poiché si basa sui rapporti, sulle reti di relazioni, sull’appartenenza al territorio, in senso fisico, emozionale, culturale e sociale.

Domiciliarità significa comunicare, condividere, compartecipare, incontrarsi, conoscersi, scambiare. Implica, per le famiglie e per i servizi, un’apertura all’esterno, una valorizzazione del lavoro di comunità territoriale che sappia rispettare e coordinare le differenze, poiché ciascuna famiglia e ciascun servizio è portatore di diverse prospettive ed esperienze.

La domiciliarità così intesa ha bisogno di servizi che osservino e si sforzino di capire che cosa succede dentro e intorno a loro. È compito dei servizi conoscere e ri-conoscere le risorse plurime presenti nella società civile, nel volontariato, nei nuovi soggetti del terzo settore, nelle risorse informali, per saperle poi raccordare.

Un sistema di welfare-mix fondato sulla collaborazione tra i servizi può alimentare una domiciliarità che non si appiattisca su risposte standardizzate, ma sappia rispettare le specificità all’interno della concezione di un territorio-laboratorio.

Per governare la complessità nel lavoro territoriale è necessario promuovere la condivisione come valore e la conoscenza come cambiamento che consente di fondare una prospettiva di domiciliarità.

La parola “rete” risulta strategica, anche se finisce per essere in un certo senso un po’ abusata e talvolta riduttiva della ricchezza che si accompagna alla reale esperienza di lavoro in comune. La rete è infatti una maglia fatta di nodi (dei quali si può restare prigionieri) ma anche di fori “vuoti” (dai quali è possibile cadere).

È inoltre uniforme, statica, si può soltanto estendere in larghezza ma non modifica la struttura delle sue maglie. La rete è foggiata per contenere, non per “irretire”; e ciò accade se non è viva, dinamica, feconda di azione. A ciò si aggiunga l’ambiguità semantica sopraggiunta in seguito alla diffusione della “rete informatica”, delle comunità artificiali originate dalla società telematica.

Per una prospettiva di domiciliarità è imprescindibile capire che cosa è una comunità oggi, nella società telematica, in cui gli scambi di aiuto tra le persone e tra le famiglie sono sempre più decontestualizzati. Questo tipo di orientamento nel lavoro sociale può far nascere collaborazioni feconde che sappiano andare oltre protocolli d’intesa formali.

In una dimensione che non sia soltanto assistenziale, ma di prevenzione del disagio, di promozione delle risorse, di coinvolgimento e protagonismo, occorre promuovere, oltre agli scambi di auto-mutuo aiuto tra famiglie, anche forme più vaste di solidarietà.




Vanna Iori

Docente universitaria e Senatrice del Partito Democratico

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