Vanna Iori

Su Dire: “Educare alla morte per saper stare nella precarietà della vita”

Su Dire: “Educare alla morte per saper stare nella precarietà della vita”
01/03/2017 | Categorie: Dire, Diritti, Educazione, Media Press


Il mio articolo di oggi, mercoledì primo marzo 2017, pubblicato sulle pagine dell’agenzia di stampa Dire.

 

Tra poco si spegneranno le luci sulle immagini e sui dibattiti. E Dj Fabo, che ha fatto ricorso al suicidio assistito in Svizzera, avrà aggiunto per tutti una riflessione non solamente sull’autodeterminazione, cioè sulla libertà/volontà di porre fine alla propria esistenza, ma anche sui concetti stessi di vita e di morte. Dove siamo soli con le nostre paure e le nostre fragilità.

Gli atteggiamenti più diffusi davanti alla morte si sviluppano innanzitutto tra i due poli di paura e fuga, da un lato, e di ricerca della spiegazione causalistica e scientifica, dall’altro. Entrambi allontanano dalla consapevolezza del limite e ostacolano quella “educazione alla morte” che è indispensabile per un’autentica “educazione alla vita”.

Dj Fabo ha mostrato determinazione e coraggio, spinto dalle sue condizioni fisiche ed emotive oramai allo stremo. Ma come (ci) si educa alla morte? Partiamo dalla fuga. Il primo atteggiamento si traduce nei molteplici riti individuali e collettivi (il tabù del cadavere, gli scongiuri, le stesse cerimonie funebri) che esprimono questa fuga inautentica davanti alla morte, o meglio, davanti alla sua oggettivazione (cioè al decesso) esorcizzandola, coprendola, allontanandola dalla nostra vita.

Corrisponde a un analogo atto di fuga e diniego della morte anche la sua spettacolarizzazione: è questa la morte che entra nelle nostre case attraverso le immagini cruente dei tg o attraverso i film, una morte in diretta che suscita curiosità pur lasciandoci indifferenti nelle nostre vite, nel nostro prender cibo davanti alle immagini di persone morenti o a cadaveri, perché viene presentata come un fatto che riguarda “altri” e non ci tocca, che ci fa sentire “al riparo”.

Così le immagini esibite da tutti i tg in modo quasi provocatorio e sfacciato, poiché non sembra prevalere il rispetto per il dolore che richiede silenzio. Questa esibizione in fondo è dettata dai modi della paura, dell’orrore, del cinismo, del pettegolezzo (e comunque mai della pietà) e non ci mette mai in contatto autentico con noi stessi di fronte all’interrogativo sul perché della morte nell’esistenza umana.

Eppure trovarci davanti al nostro limite significa assumere come componente fondamentale della nostra esistenza la morte, già presente in noi nella sua ineluttabilità, e accettare il nostro destino di finitudine. Perciò la libera accettazione della vita è anche accettazione del suo estremo poter-essere, la morte.

Da questa accettazione del nostro essere-per-la morte può venire un atteggiamento di “accompagnamento” al morire che non sia di occultamento o di spiegazione causalistica, ma di libertà. Può apparire un paradosso, quello posto da Heidegger, ma la libertà più profonda è allora la libertà-per-la-morte.

La libertà-per-la-morte non è un’esperienza grettamente individualistica che isola l’uomo e lo conduce al nichilismo. Al contrario, è proprio nella consapevolezza interiore del nostro limite che è possibile entrare in sintonia con l’umanità tutta, comprenderla in termini non superficiali e banali, ma autenticamente aperti alla conoscenza e alla condivisione.

Di fronte al dolore e alla morte è difficile trovare risposte all’eccesso di coinvolgimento o di distanza rispetto al turbamento emotivo che deriva da un “Tu” sofferente. L’angoscia, a differenza della paura, non parla in noi secondo i linguaggi del turbamento esteriore, ma secondo il silenzio interiore davanti al senso della morte, che è la nostra più sincera scoperta.

Se non si comprende la vita non si può interpretare la morte. E viceversa. L’una e l’altra non possono essere interpretate separatamente, né possono essere comprese solo razionalmente, poiché i nostri quotidiani moduli di pensiero non concorrono a dis-velare il mistero dell’umano.

Gli interrogativi sulla fine e l’apertura all’angoscia diventano, in questo senso, degli strumenti della solidarietà umana e della pietas, in quanto consentono di ritrovare se stessi e di proporsi più positivamente e autenticamente nell’esistenza, in relazione con gli altri, nel condividere l’esperienza comune di un’esistenza contrassegnata dalla finitudine.




Vanna Iori

Docente universitaria e Senatrice del Partito Democratico

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