Vanna Iori

Storie di ordinaria crudeltà: quali risposte oltre le pene

Storie di ordinaria crudeltà: quali risposte oltre le pene


Nei giorni scorsi, due episodi di cronaca hanno sconvolto l’opinione pubblica. A Manduria un gruppo di adolescenti, la “comitiva degli orfanelli”, ha aggredito un pensionato con disturbi psichici che è morto in seguito alle violenze subite.

A Viterbo, due giovani di CasaPound, neppure ventenni, hanno selvaggiamente stuprato una donna inerme per ore, dopo averla picchiata fino a farla svenire. In entrambi i casi, i ragazzi hanno filmato le violenze con l’intenzione di condividerle su WhatsApp. Immagini da lasciare nella memoria come se le loro gesta fossero atti eroici di cui vantarsi.

Si tratta, a detta degli inquirenti, di video raccapriccianti che, nel caso di Manduria, sono stati diffusi dagli organi di stampa, dimostrando la ferocia, lo scherno e la brutalità con cui l’anziano è stato vessato. Torture durate mesi nella totale omertà indifferente di chi sapeva e ha taciuto o ha parlato troppo poco o invano. Immagini che certificano come la violenza sia stata talmente sdoganata da far sembrare a quei ragazzi tutto un gioco.

Non esiste nessuna forma di empatia che consenta loro di percepire il dolore che arrecano. Nessuna forma di consapevolezza rispetto al fatto che stanno torturando e umiliando un essere umano. Non si tratta semplicemente di crudeltà e di incapacità di identificazione ma di qualcosa di più profondo. Ci troviamo di fronte alla totale indifferenza nei confronti dell’altro da sé e all’ignoranza delle varie e molteplici condizioni umane.

Ci troviamo di fronte all’affermazione che si esiste solo sui social, nelle immagini scaricate su un cellulare, nei “mi piace” che si riesce a collezionare. Sono ragazzi che percepiscono la loro esistenza soltanto in questo modo e non sono in grado di darle nessun altro valore. Un valore che trovi senso sul piano delle relazioni umane, della compassione, della solidarietà.

Gli anziani, gli immigrati, le donne rappresentano le fragilità che consentono loro di affermare l’inconsapevole disvalore delle loro vite. Ai loro occhi sono persone marginali che non hanno alcuna forza e consistenza e servono come pedine nel gioco del “tutto è possibile”.

Ne hanno parlato, incapaci di trovare vere spiegazioni, o di andare oltre l’indignazione, tutti i media. Ma gli adulti sono spesso indifferenti e si muovono nella logica che tutto possa essere riparabile e giustificabile, senza comprendere fino in fondo la gravità di alcuni comportamenti. Si produce così una concatenazione tra genitori e figli che impedisce di rompere il circuito della scarsa comunicazione educativa dentro la famiglia, e quindi di una tolleranza che non trasmette regole, persino verso la violenza.

Questi episodi che riguardano minorenni sono la punta dell’iceberg di un atteggiamento diffuso che dovrebbe mettere in discussione gli adulti attraverso l’assunzione della responsabilità genitoriale che fa crescere la consapevolezza del gesto compiuto e insegnare a rispettare l’altro chiunque esso sia, fuori dalla logica del branco.

La vita di un anziano disabile non ha valore? La dignità e il corpo di una donna possono considerarsi alla mercé di giovani uomini per cui andare a bere qualcosa significa “essere consenzienti”? Come se la vita degli esseri umani fosse un videogioco? Chi insegna loro che la violenza rimane impressa sul corpo e nella mente? Che le umiliazioni non si possono cancellare e non è possibile pensare che sia sufficiente una punizione, il biasimo, la pena.

La compassione e l’empatia vanno insegnate e se le famiglie non sono in grado di farlo, bisogna che ci pensino le altre agenzie educative. La dimensione delle relazioni oggi presenta storture drammatiche.

Dove si insinua la crisi di senso che attraversa l’esistenza di tanti giovani e che li rende incapaci di conoscere e coltivare gli alfabeti dei sentimenti e assumere la responsabilità dei comportamento conseguenti?

Se il noto proverbio africano dice che per costruire un ragazzo ci vuole un intero villaggio, la domanda da cui partire è: quale villaggio abbiamo creato per costruire questi giovani carnefici che si fanno forti della debolezza dell’altro? Ma soprattutto quali insicurezze nasconde il bullo? Quali violenze o indifferenze ha respirato in famiglia e nei luoghi della sua crescita? Quale vuoto educativo?

Non basteranno pene più severe, benché la punizione sia ovviamente necessaria, se contestualmente non si costruiranno con urgenza e concretezza spazi per una progettualità giovanile che facilitino la creazione di progetti di sé e di senso per la propria esistenza, per aiutarli a concepire scelte e speranze.

Restituire ai giovani il futuro significa recuperare quelle dimensioni di vita che hanno a che fare con l’impegno nella appartenenza alla storia individuale e sociale.

Il mio articolo per Huffington Post




Vanna Iori

Docente universitaria e Senatrice del Partito Democratico

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