Vanna Iori

Su Dire: “L’importanza delle parole nella famiglia”

Su Dire: “L’importanza delle parole nella famiglia”
21/01/2017 | Categorie: Dire, Famiglia, Genitorialità, Media Press


Il mio articolo di oggi, sabato 21 gennaio 2017, pubblicato sulle pagine dell’agenzia di stampa Dire.

 

Quanta importanza hanno le parole o meglio il parlarsi nella famiglia? Luogo delle origini e spazio interiore, la famiglia è luogo della parola originariamente appresa e di condivisione dei linguaggi. La parola nella famiglia è innanzitutto parola vissuta. I gesti di cura familiare hanno inizio nello spazio immateriale delle parole che “abitano” le relazioni.

I caratteri della comunicazione familiare sono del tutto particolari, diversi da quelli di ogni altro “insieme” di persone. I legami che collegano – orizzontalmente e verticalmente – i generi e le generazioni assumono le connotazioni degli affetti e delle tonalità emotive che si intrecciano nelle diverse sfumature dei sentimenti: l’amore, la complicità, il rancore, la paura, i sensi di colpa e quegli stati d’animo nocivi che possono rendere anche distruttivi i legami familiari.

Ogni contesto familiare adotta regole interne, anche non esplicitate, a cui attenersi nella comunicazione: parole che si devono/non si devono dire, ciò di cui si può/non si può parlare, ciò di cui si parla ugualmente, anche se negato, ciò di cui non si parlerà mai, eppure è sempre presente.

Ci sono gesti, sorrisi, intonazioni della voce che accompagnano le parole e solle­vano, coinvolgono o guariscono dalle ferite; e ci sono le reticenze, le domande sussurrate, gridate o taciute. Ci sono i “non detti” che turbano, i silenzi densi di tensione che lasciano segni e inaridiscono i rapporti.

Le grevi atmosfere di disinteresse reciproco generano contesti familiari in cui predomina la parola impersonale: si accende la tv o si sta sui telefonini per evitare di parlarsi. Il dialogo è ridotto all’essenziale. Si comunica distrattamente e solo ciò che serve per “informare”.

Vengono usati i linguaggi banalizzati, impoveriti ed omologati, inessenziali, opachi, che ripetono sé stessi senza “dire”, che non si fanno discorso, che non incontrano l’altro se non per frammenti di dialoghi equivoci. Dove le parole della relazione di coppia o genitori-figli sono apprese dall’esterno, il lessico familiare rischia di assumere i linguaggi stereotipati della fiction.

I ragazzi, per lo più privi di una grammatica del sentire che sia trasmessa da parte degli adulti (a loro volta immersi nel diffuso analfabetismo sentimentale), rimangono incapaci di vivere delle emozioni reali e quotidiane, per la mancanza delle parole per dire i sentimenti.

Coltivare l’arte del sentire è molto difficile poiché risulta spesso problematica non solo la consapevolezza, ma la verbalizzazione stessa. Dare nome a ciò che proviamo lo fa esistere. Trascurati anche perché temuti, emozioni e sentimenti non trovano parole per essere nominati (nel senso di “dare nome”).

Per ridare dignità alla comunicazione affettiva familiare è necessario allora prendersi cura delle parole: non solo di quelle che spiegano, che prescrivono, ma anche delle parole vissute. Ciò significa non attenersi a una comunicazione di mera informazione (dove vai, con chi vai, quando torni?), dove le risposte corrispondono più alle attese di quanto i genitori vogliono sentirsi dire (per una pseudo-tranquillizzazione) che a una effettiva risposta esistenziale.

La parola, per essere feconda di legami autentici nella famiglia, deve essere innanzitutto ascoltata. E all’origine di ogni ascolto c’è il bisogno di silenzio. Dove non c’è silenzio non c’è neppure parola. La parola non si contrappone al silenzio, ma ha bisogno del silenzio per potere risuonare del suo significato e del suo senso.

Alla parola inautentica, anonima, alla chiacchiera del Si impersonale non servono silenzi, perché non lascia echi e si mescola confondendosi nel brusio indistinto o nel fragore della quotidianità. In un rapporto dialogico autentico (e spesso faticoso) può aver luogo anche il dissenso, la discussione, talvolta il conflitto, ma in uno sforzo di comunicazione, di andare incontro all’altro per costruire dimensioni di reciprocità sempre nuove.

La parola può mettere in comunicazione le dissonanti visioni del mondo e gli stili di comportamento diversi tra i generi e tra le generazioni. La sfida educativa per la famiglia attuale è quella di non accontentarsi di domande e risposte appiattite sul presente, dove manchi la dimensione temporale del futuro e del progetto.




Vanna Iori

Docente universitaria e Senatrice del Partito Democratico

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *