Vanna Iori

Carceri, le sbarre non siano un ostacolo tra genitori e figli

Carceri, le sbarre non siano un ostacolo tra genitori e figli
01/02/2016 | Categorie: Carcere, Genitorialità, Huffington Post, Media Press


Il mio nuovo articolo uscito oggi sull’Huffington Post.

Genitori comunque. E figli nonostante. Le sbarre, simbolo del carcere, non possono diventare un ostacolo alla genitorialità e al diritto contestuale, dei minori, di avere un legame affettivo fondamentale. Un’enunciazione che potrebbe sembrare scontata eppure non è così nel nostro paese che ancora sconta un deficit in termini di genitorialità in carcere.

Il rapporto dell’associazione Antigone 2015 rende noto che nelle carceri italiane ci sono 12 sezioni nido con bambini. Al 31 dicembre 2014 erano 28 i bambini sotto i tre anni in carcere con le loro mamme, un dato che sale nei periodi non festivi. Ci sono però anche tantissimi ragazzi in età minorenne con genitori reclusi: 57.000 figli con 25.119 padri o madri in carcere.

Una situazione preoccupante che mette a dura prova il diritto alla genitorialità. Poter vivere la paternità e la maternità è un diritto per gli adulti, così come lo è per i bambini conservare i legami genitoriali, essenziali per la crescita e lo sviluppo psicologico, affettivo, cognitivo, relazionale, sociale.

Ma quando queste relazioni genitoriali si svolgono quotidianamente in ambiente carcerario (come nel caso delle madri detenute) o prevedono incontri saltuari con un genitore detenuto, sono necessarie alcune condizioni materiali che consentano di coltivare durante la carcerazione un rapporto educativo e affettivo con i figli, esercitando la genitorialità, pur in condizione di reclusione, e mantenendo una frequentazione reciproca che non dissolva i legami familiari.

Per rispondere a queste esigenze ho depositato una proposta di legge volta a modificare alcune disposizioni attuali e intervenire, da un lato, sulla situazione delle madri detenute con bambini, dall’altro sulla situazione delle migliaia di genitori e figli a cui è negato il diritto alla espressione della genitorialità.

Innanzitutto occorre ribadire un principio irrinunciabile: la presenza di bambini dietro le sbarre non è degna di un paese civile. È di tutta evidenza pedagogica e psicologica che le necessarie esigenze di sicurezza che presiedono le strutture carcerarie e ne regolano l’organizzazione non possono in alcun modo corrispondere allo sviluppo sereno dei bambini né alle adeguate cure materne.

Il carcere aggiunge alla solitudine del detenuto la distruzione dei suoi legami familiari e la privazioni dei rapporti che desidera mantenere in modo talvolta struggente: abbracciare i figli, ascoltare la loro voce, o semplicemente osservarli, progettare per loro un futuro migliore, insegnando ai figli a non commettere gli stessi errori. Anche i figli soffrono per la perdita dei legami con i genitori. L’allontanamento improvviso è traumatico per entrambi. Così come la chiusura forzata dei figli piccoli che, incolpevoli, crescono nei luoghi di punizione.

La tutela della maternità e dell’infanzia, sancita dall’articolo 31 della Costituzione, impone di sottrarre i bambini all’esperienza di crescere in una struttura carceraria. Nella consapevolezza di queste molteplici difficoltà è necessario proporre nuove misure che possono meglio rispondere alle esigenze di rapporti con i famigliari e al diritto alla genitorialità.

Come può mantenersi e consolidarsi la genitorialità se è difficile l’effettuazione del colloquio, atteso per giorni o settimane, se esso avviene in condizioni inidonee al dialogo, alla confidenza e alle manifestazioni di affetto? È questo un aspetto particolarmente urgente e drammatico. Il momento del colloquio è certo il più significativo sul piano degli affetti e delle relazioni. È noto infatti che i colloqui avvengono generalmente nella confusione di un parlare, spesso urlante, di pianti, in presenza di altri detenuti e familiari, dove anche un abbraccio tra padri/madri e figli diventa difficile o imbarazzante per entrambi.

I colloqui dei figli con madri e padri detenuti devono cioè svolgersi in locali idonei al fine di evitare la permanenza di bambini e ragazzi in ambienti caotici, sovraffollati e promiscui. Per ridurre l’impatto del carcere sui figli di detenuti sono indispensabili luoghi che rispettino la sensibilità dei minorenni, da realizzare all’interno degli istituti, sia per i colloqui sia per le aree di attesa, possibilmente senza mezzi divisori o all’aperto, garantendo anche la possibilità di trascorrere tempo con attività ludiche in attesa dell’incontro e durante l’incontro con il proprio genitore.

E soprattutto occorre dotare il personale penitenziario di alcune figure chiave quali operatori psicopedagogici che svolgano un ruolo di accompagnamento e presa in carico della famiglia nonché di preparazione dei congiunti e del minorenne al colloquio.

Ben nota è l’attuale mancata realizzazione (ad esclusione delle strutture di Milano, Venezia e Cagliari) degli Istituti a custodia attenuata per madri detenute (Icam) previsti dal decreto attuativo della legge 62 del 2011, carenza che comporta ad oggi la crescita e la permanenza dei bambini all’interno del carcere, con la madre detenuta, sino all’età di sei anni.

È necessario che il giudice abbia la possibilità di estendere la permanenza in case protette alla madre con figli anche di età superiore ai dieci anni per assicurare un più equilibrato sviluppo del minorenne che necessiti di ulteriori cure materne.

Le case-famiglia protette devono poi essere realizzate fuori dagli istituti penitenziari e organizzate con caratteristiche che tengano conto in modo adeguato delle esigenze psico-fisiche dei bambini, ispirandosi ai criteri prioritariamente desunti della prospettiva educativa e rieducativa e dalla presenza di personale con queste competenze per garantire la priorità degli aspetti educativi. In secondo luogo si individua la necessità di un ambiente interno (arredi, abbigliamento, spazi) adatto alle esigenze dei bambini e al rapporto materno.

Devono essere inoltre assicurati i rapporti con strutture educative esterne e la frequentazione di coetanei, stipulando anche apposite convenzioni con gli Enti locali, i comuni o le associazioni di volontariato del settore per accompagnare i figli presso asili nido, scuole dell’infanzia o scuole primarie.

Le strutture educative che consentono di giocare e apprendere nei luoghi condivisi costituiscono importanti momenti di contatto con il mondo extracarcerario dove il diritto fondamentale all’educazione trova momenti di arricchimento e, in molti casi, di tregua serena nella precoce durezza esistenziale a contatto con il dolore e la rabbia della detenzione. Essere figli, padri e madri si può, anche se in mezzo ci sono le sbarre: basta guardare al di là di esse.

 




Vanna Iori

Docente universitaria e Senatrice del Partito Democratico

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