La povertà minorile grande esclusa dal reddito di cittadinanza

Il reddito di cittadinanza, per come è costruito, è totalmente improntato sulle politiche attive del lavoro. Per questo, come segnalato dall‘Alleanza contro la povertà, sarebbe stato più utile mantenere e rafforzare uno specifico strumento di contrasto alla povertà assoluta come il REI, ampliandone la platea dei destinatari, aumentando l’attuale beneficio economico e rafforzando l’infrastruttura territoriale dei servizi pubblici.
È un errore, infatti, trasferire la titolarità della presa in carico dei beneficiari dai comuni ai centri per l’impiego: la povertà e l’esclusione sociale sono fenomeni complessi che richiedono un’azione coordinata e multidisciplinare da parte del sistema pubblico.
Pensiamo, per esempio, alla povertà minorile. Crediamo davvero che sia solo una questione di reddito? I bambini sono i grandi dimenticati della misura varata dal governo: se il modello è concentrato sul lavoro, per definizione dedicherà poca attenzione alle categorie non occupabili. In questo caso l’efficacia delle risposte dipende esclusivamente dalla condizione occupazionale dei genitori, non dalle esigenze dei bambini.
Se nella scelta di indirizzare i richiedenti al Comune o al Centro per l’impiego la decisione è legata alla condizione occupazionale del genitore, la realtà dei bambini non è considerata. Questo è l’esempio lampante di come obiettivo del reddito sia l’inserimento nel mercato del lavoro e non la lotta all’indigenza. Infatti esso non incide e non contrasta adeguatamente la povertà minorile, in aumento, trattata marginalmente da questo provvedimento.
Il REI stabiliva l’obbligo e la previsione di interventi di sostegno sociale, per il diritto all’istruzione e all’educazione dei minori. Non c’è più nulla di questo aspetto decisivo per lo sviluppo del Paese. Per un bambino o per un adolescente la quotidianità dovrebbe essere garanzia di sogni, progetti per il futuro, passioni, sport, educazione e studio. Invece, come ci dimostrano i dati e le tendenze di numerosi analisi e studi, questo entusiasmante periodo della vita si sta trasformando nel primo atto (spesso unico) di un’opera chiamata povertà.
Fino a quindici anni fa la classe di età più disagiata era quella degli over 65. Oggi, invece, è la fascia al di sotto dei 17 anni a pagare maggiormente il prezzo della povertà assoluta, economica ed educativa. Se nasci povero resti povero. Questa asserzione, ormai fin troppo utilizzata e aderente purtroppo alla realtà, ci fa rendere conto di come l’orizzonte di riscatto per i giovani si stia troppo velocemente allontanando da quella spensieratezza che dovrebbe connotare l’infanzia di ogni bambina e bambino.
Questo orizzonte fa parte di quella povertà educativa che, sommata a quella economica, spesso fa pendere l’ago della bilancia verso la povertà eterna nel futuro di un giovane. Da qui l’importanza di affrontare con decisione questo fenomeno prima che sia troppo tardi: dare ai giovani occasioni invece che rassegnarli alla povertà, educazione invece che abbandono, può spingere il loro futuro verso una dimensione di riscatto sia economico che educativo.
Ecco, ci saremmo aspettati che nella costruzione di una misura contro la povertà si avesse maggiore cura dei minori e di questo drammatico fenomeno. Sarebbe servito focalizzare l’attenzione di tutte le istituzioni, privilegiando la strategia dell’integrazione tra i servizi per far fronte all’aumento dei bisogni e alla diminuzione delle risorse.
Ricalibrare le relative funzioni può contribuire a rafforzare quella rete che può offrire servizi integrati, sia mirati direttamente ai bambini sia diretti alle famiglie e alle comunità territoriali. Le nostre politiche socio-educative sono ancora troppo carenti e frammentarie.
L’integrazione di risorse, di competenze e di responsabilità può arricchire il sistema del welfare educativo, migliorare l’efficienza e accrescere il benessere educativo. Primo passo per la lotta alla povertà. Ma il governo, purtroppo, ha scelto una strada diversa.
Il mio articolo per Huffington Post