Vanna Iori

Su Dire: “Quella depressione che ha fatto da detonatore per uccidere i propri figli”

Su Dire: “Quella depressione che ha fatto da detonatore per uccidere i propri figli”


Il mio articolo di oggi, venerdì 8 dicembre 2017, pubblicato sulle pagine dell’agenzia di stampa Dire.

 

Prima ha soffocato in casa la figlia più piccola, di 2 anni. Poi ha preso la macchina e ha guidato per una decina di minuti fino a perdersi nella golena del Po. Lì, con un coltello, ha ucciso anche l’altro figlio, di 5 anni, che aveva portato con sé. Poi ancora ha provato a suicidarsi.

La fredda cronaca del doppio infanticidio di Luzzara, in provincia di Reggio Emilia, inquieta, sconcerta, mette in luce un universo nero, fatto di violenza spietata, giovani vite spezzate per sempre, madri incapaci di gestire il proprio universo emotivo. Ma soprattutto ripropone un tema che il delitto di Cogne ha mostrato all’Italia intera, quello della maternità che si trasforma in violenza, fino al gesto estremo di uccidere la propria prole.

La vicenda di Luzzara ci porta in un mondo spesso sottaciuto, quello della maternità. Un mondo spesso dipinto con toni esclusivamente benevoli, come se la nascita rappresentasse solo un evento lieto o comunque neutro, asettico, rispetto al mondo della donna che, inesorabilmente, cambia il suo corpo, il suo aspetto, il suo ruolo, la sua immagine sociale.

L’incapacità di gestire questi cambiamenti genera smarrimento e può arrivare, se non supportata da un universo e relazioni emotivamente sane, al buco nero della depressione. Come è successo ad Antonella, la madre dei due bambini uccisi, ex modella, che era in cura da tempo.

“Aveva problemi”, hanno detto i nonni dei piccoli e ha ripetuto il marito della donna. In diversi paesi europei sono in atto politiche diffuse di prevenzione e accompagnamento nelle forme di depressione successiva alla nascita. Perché diventare genitori non è solo un fatto privato, ma pubblico e politico.

Nella “società del rischio” la precarietà è diventata “normale”. Tutti siamo più fragili davanti alle incognite della vita. È in questo contesto che donne “felici” sprofondano imprevedibilmente nella depressione post partum, spesso taciuta o negata per lo stigma sociale e gli stereotipi, frequentemente non diagnosticata, anche perché sottostimata dalla stessa cultura medica.

È prioritario potenziare l’attenzione alle relazioni interpersonali attivando e rafforzando quelle competenze emotive che spesso rimangono invisibili nei percorsi formativi. Nel “mettere al mondo” si collocano infatti gli ostacoli e le difficoltà che riguardano principalmente l’assunzione di responsabilità, l’attenzione ai vissuti, l’apprendere a divenire, a comporre e ri-comporre la propria vita, l’apprendere dall’esperienza e dai racconti di esperienze di altre donne.

La nascita è un “lieto evento” che, secondo il linguaggio corrente, indica con eccezionalità gioiosa il momento iniziale della venuta al mondo. Eppure è un “evento” molto complesso che si presenta, da un lato, con i tratti della “normalità” in quanto naturale, ordinario, abituale, antico, appartenente al perpetuarsi della specie umana; dall’altro ha un carattere di straordinarietà, poiché il mettere al mondo è, per molti aspetti, un “imprevisto” che irrompe nello scorrere ordinario dei giorni e trasforma irreversibilmente le biografie personali, i corpi e le relazioni.

Anche quando è voluta, attesa e pianificata, la nascita rappresenta la svolta più decisiva nel corso della vita adulta. La maternità è desiderata ma anche temuta e densa di preoccupazioni. Occorre recuperare quel sapere esperienziale sulle pratiche di cura e sulla cultura della cura, a trasmissione matrilineare, che è stato inopinatamente estromesso dalle professioni sanitarie.

La maternità è oggi, per le nuove generazioni di donne, privata del tradizionale sostegno dell’esperienza femminile di cura. I significati simbolici e le proiezioni culturali di quel corpo di donna che “mette al mondo”, depositario della vita, sono assenti dall’esperienza generativa intesa come evento che interroga soltanto le tecniche del parto.

Accompagnare la nascita attraverso percorsi provvisti di senso restituisce la madre alla sua umanità riconoscendole il valore del generare una vita. Per favorire la crescente umanizzazione del mettere al mondo, senza farsi inghiottire dalla depressione, sarà necessario quindi innanzitutto diffondere un’etica della cura condivisa dove prendersi cura dei figli non sia disgiunto dall’etica della responsabilità diffusa in senso sociale e civile. Dove l’esperienza depressiva non sia abbandonata a se stessa ma intercettata precocemente e preso in cura adeguatamente attraverso scelte politiche di carattere sanitario e sociale adeguate.




Vanna Iori

Docente universitaria e Senatrice del Partito Democratico

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