Vanna Iori

Su HP: “Ora è Berlino il gorgo della paura. Chi gestisce l’insicurezza dei millennials?”

Su HP: “Ora è Berlino il gorgo della paura. Chi gestisce l’insicurezza dei millennials?”
22/12/2016 | Categorie: Huffington Post, Media Press


Il mio nuovo articolo uscito oggi, giovedì 22 dicembre 2016, sull’Huffington Post.

 

Il quotidiano Bild ha titolato a tutta pagina una sola parola: “Angst!”, la paura. Quella folla di uomini, donne e bambini, che si aggirava tra i mercatini di Natale, si è ritrovata di fronte un tir impazzito.

Il silenzio dopo il rumore assordante nel fuggi fuggi, gli istanti in cui si mette a fuoco che quei mercatini delle feste si stavano trasformando in qualcosa che di gioioso non aveva più nulla. La ricerca di amici e parenti tra i corpi travolti sull’asfalto. Dopo il Bataclan, Bruxelles, Nizza, è toccato a Berlino il gorgo della paura.

Le telefonate a casa per rassicurare o per piangere, le scritta su facebook “ha dichiarato di stare bene durante l’attentato di Berlino”. E poi la conta delle vittime, il silenzio, la commemorazione. Un rituale sempre uguale, e ogni volta più doloroso per chi lo ha vissuto in prima persona ma anche per chi, magari per caso, si è salvato o, in generale, per chi ha assistito sbigottito davanti alla tv, ai video e alle foto che hanno fatto il giro del mondo sui social network.

Per la prima volta, dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Europa colpita al cuore dalla ferocia del terrorismo grida la sua paura. La società ha paura di una realtà che non ha conosciuto, che non fa parte dei racconti familiari, perché i nonni di oggi sono i baby boomers del dopoguerra e i loro figli sono i genitori di oggi, cresciuti nella convinzione di una pace stabile e duratura.

Generazioni di pace che si trovano ora a crescere i figli nella guerra più subdola: il terrorismo. Figli nati negli ultimi quindici anni, millenials che dall’11 settembre 2001 ‎in poi si sono ritrovati a vivere con l’inquietudine “che possa accadere ovunque”. In questo incrocio intergenerazionale risiede forse la più grande fragilità della società occidentale (e non solo): dover fronteggiare un terrorismo che si fa sempre più imprevedibile e spietato.

Una generazione di genitori cresciuti nella pace deve crescere i figli nella paura della guerra. A Berlino, in particolare, che nel 1989 con la caduta del muro ha vissuto forse il momento più significativo di una nuova stagione, si vive in questi giorni il fallimento più grande. Perché vivere nel tempo del terrorismo significa fare i conti con un sentimento di paura nuovo, dal carattere imprevedibile e permanente.

Come spiegare allora ai propri figli che questa violenza è sempre dietro l’angolo e che anche il più sofisticato sistema di sicurezza può essere messo a repentaglio all’improvviso da un pazzo che decide di salire su un camion e lanciarsi a gran velocità su una folla natalizia? Interrogativi a cui è difficile dare una risposta.

In questo contesto emerge prepotentemente non solo l’impossibilità dei genitori di proteggere i propri figli. Ma anche l’incapacità di dare risposte alle loro paure e alle angosce che i genitori non hanno conosciuto (o per lo meno non con l’intensità di Al Qaeda e dell’Isis). Padri e madri si trovano oggi a essere sprovvisti di strumenti per “spiegare” l’orrore di una violenza che uccide fisicamente ma anche nell’anima, segnando per sempre i bambini e gli adolescenti di un Occidente sempre più vulnerabile e violato dal terrorismo.

Le vittime sono loro, i figli del terrorismo. Sempre più angosciati, impauriti, esposti a pericoli che sembravano appartenere a un tempo passato. La morte ora ridiventa immediata, cruenta, feroce. Le risposte a queste domande passano per l’unico strumento che oggi abbiamo a disposizione, oltre evidentemente alla possibilità di rafforzare le nostre misure di sicurezza soprattutto sul piano preventivo: la gestione della paura.

Ma come? Quel giornale in copertina grida “Angst!”, il termine esatto che la psicoanalisi riprende per indicare nelle “nevrosi d’angoscia” un’ansia imprecisata e profonda verso un pericolo esterno o paure interne che risultano incontrollabili per la loro intensità, provocando una reazione di difesa.

In realtà quella parola si ritrova in molte lingue con il significato di “qualcosa che opprime”: dal latino anxia, o angor, all’italiano angoscia, e persino agonia, ma anche il francese angoisse, o l’inglese anguish, agony. Sono le parole che indicano la paura di qualcosa di ineluttabile che nessun ragionamento può spiegare o allontanare. E infatti non è ragionando sull’angoscia, tutti sappiamo, che la si sconfigge.

In Israele, negli anni dell’Intifada più cruenta, era molto di moda un detto popolare che spingeva i giovani a divertirsi a più non posso perché il pericolo di morire era dietro l’angolo. Ma la ricerca della felicità e della spensieratezza a tutti i costi, anche in maniera forzata, non può essere la soluzione. Con la paura occorre imparare a convivere. Soprattutto occorre trovare gli strumenti adeguati per non farla diventare immobilismo e arrendevolezza.

Questa esperienza vissuta che riguarda la totalità dell’esistenza pone genitori e figli in un’apertura radicale all’esperienza del sentirsi in relazione, del con-dividere e del co-sentire, nella irrinunciabile umanità che si contrappone all’individualismo, all’opportunismo, all’egoismo. Sul piano delle relazioni educative è molto importante riprendere questa nuova condivisione poiché la relazione tra persone mette in gioco la vita affettiva nel reciproco corrispondersi di difese dove il sentire diventa sapere. Saper stare nella paura mantenendo saldi i legami umani è la prima difesa.

Dal confronto intergenerazionale, tra i padri della pace e i figli del terrorismo, può e deve nascere una forza che punti, nell’immediato, a gestire una situazione che è ancora lontana dalla pace ma che deve necessariamente andare in quella direzione.




Vanna Iori

Docente universitaria e Senatrice del Partito Democratico

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