Vanna Iori

Bambini, disabili, anziani: dov’è finito il prendersi cura?

Bambini, disabili, anziani: dov’è finito il prendersi cura?
22/02/2016 | Categorie: Disabilità, Huffington Post, Infanzia, Media Press


Il mio nuovo articolo uscito oggi sull’Huffington Post.

 

Cagliari, 14 operatori sospesi per percosse a disabili in una casa di cura. Pisa, bambini maltrattati a scuola. E poi ancora Pavullo, in provincia di Modena, dove una maestra ricopriva di insulti e botte i bambini di un asilo. Parma, anziani picchiati e costretti a stare a letto in una casa di cura.

Gli episodi di violenza verso pazienti anziani, disabili e bambini da parte di coloro che dovrebbero prendersi cura di loro solleva interrogativi inquietanti. Esposti e denunce, documentazione inoppugnabile delle telecamere, allontanamenti immediati e sanzioni penali sono gli interventi urgenti e indispensabili.

Ma non si ignori la presenza di servizi e operatori che offrono, invece, risposte di qualità eccellente, di alta professionalità e attenzione alle relazioni. Cosa fa la differenza? È evidente la necessità di una selezione accurata, di un controllo costante sulle attività degli operatori, di una formazione continua per favorire la crescita professionale e la rimotivazione iniziale affinché non “sbiadisca” nel tempo.

Queste differenze nel lavoro di cura lasciano aperte alcune domande sulle professioni educative, sociali, sanitarie, attraversate da una crescente crisi di senso, per le forme inedite di disagio che chiedono nuove risposte. La “zona grigia” delle fragilità, talvolta invisibili, si fa sempre più variegata.

Da un lato aumenta il numero di persone che, pur tradizionalmente “al riparo” dalle diverse forme di povertà, sono state “declassate” economicamente e socialmente; dall’altro si moltiplicano le nuove forme di criticità esistenziale, non sempre riconducibili a bisogni conclamati, che spesso rappresentano solo la punta di un iceberg più complesso nelle acque della cosiddetta “normalità”.

Le risposte attivate dal sistema dei servizi (dove ci sono) rivolti ai soggetti appartenenti alle categorie tradizionalmente fragili (anziani, malati, disabili, tossicodipendenti, immigrati) sono sempre meno in grado di corrispondere a tutta l’eterogeneità delle nuove vulnerabilità. Il sistema di welfare è chiamato a modificarsi perché la domanda (esplicita e implicita) interpella gli operatori a farsi carico anche di nuove quotidiane “frontiere” del disagio e delle difficoltà: dalla solitudine alle violenze domestiche, dallo stalking alle preoccupazioni abitative, dalle problematiche legate alle migrazioni a tutte le diverse forme di esistenze ferite.

Il lavoro di chi si prende cura è chiamato perciò a “ritrovarsi” e ridare un senso alla propria “mission”, a “ri-progettarsi” nel progettare, a ripensare le tradizionali categorie interpretative, a ricostruire direzioni di senso, ad attivare nuove modalità di ascolto e di relazione, a inventare percorsi e competenze tecnico-operative, in una crescente necessità di favorire la crescita professionale in questo tempo dell’incertezza contribuendo a far avanzare la qualità dei servizi.

Oggi è diventato urgente, oltre ad un solido bagaglio di competenze professionali, ripensare la differenza sul significato del curare (in senso tecnico) e dell’aver cura, poiché nelle istituzioni e nei servizi il curare (to cure) in senso medico, ma anche in senso educativo e sociale perde di vista l’aver cura la sollecitudine autentica, quel “prendersi cura” (to care) che si fonda sulla relazione.

La cura può avvenire anche in assenza di un “aver cura” della persona, ossia nel disinteresse e nell’indifferenza. Curare senza aver cura è il paradosso che rende anonime le strutture dei servizi, e può persino farle diventare disumane come nei casi che arrivano alle cronache. Le relazioni finiscono relegate ad un’importanza residuale laddove le strutture sono improntate a regole imposte/subite, anche se incomprensibili o addirittura talvolta disfunzionali.

Quando la routine disperde l’attenzione verso l’altro-persona nei gesti anonimi e nei comportamenti standardizzati rivolti all’altro-utente, si opacizza l’aver cura rivolto agli altri esseri umani. La cura dell’altro ha bisogno quindi di competenze professionali solide, ma anche di un atteggiamento moralmente responsabile verso il diritto alla cura.

Il lavoro di cura richiede preparazione, ma ha bisogno anche di includere nella preparazione una competenza sull’ascolto, le parole, gli sguardi. E non solo di tecniche. Le competenze tecniche saranno arricchite da quelle competenze della vita emotiva che consentono di mantenere nel tempo lo sguardo iniziale, indispensabile per continuare a coltivare la motivazione, l’acquisizione di professionalità che coincida con l’autenticità di un incontro personale. Per questo è importante rinnovare il senso di ciò che si fa.




Vanna Iori

Docente universitaria e Senatrice del Partito Democratico

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