Vanna Iori

Carceri, l’Italia non abbia paura della pena rieducativa

Carceri, l’Italia non abbia paura della pena rieducativa
24/09/2015 | Categorie: Carcere, Huffington Post, Media Press


Il mio nuovo articolo uscito oggi sull’Huffington Post.

 

La funzione rieducativa della pena rischia di rimanere oggi un paradosso che alimenta una rielaborazione rabbiosa, mortificando la dignità umana, o può davvero tradursi in un progetto possibile che consenta una pena “riflessiva” in grado di riattraversare le ombre della devianza e del reato commesso per poter concepire un nuovo progetto per il proprio futuro e un reinserimento sociale?

Questo interrogativo si pone oggi come necessario e legittimo. È un interrogativo che comporta una riflessione sul senso che può avere la pena dietro le sbarre, riflessione resa ancor più necessaria in un contesto di crescente populismo giustizialista, superficiale ed emotivo. La pericolosità sociale di alcune categorie di persone è spesso più apparente che reale e la detenzione risponde più all’esigenza di allontanare e segregare i “devianti” per la loro differenza che per l’effettiva pericolosità sociale. Il carcere diventa in tal modo una struttura “sostitutiva” delle strutture di recupero sociale inesistenti o insufficienti, che consentano l’uscita dal carcere anche per chi fuori non ha un domicilio.

Ma questi sentimenti sono motivati anche dal fatto che non c’è nel nostro Paese il senso della certezza della pena e di una giustizia penale rapida e efficace. Il passo decisivo per superare la visione meramente punitiva e riuscire ad affermare una effettiva funzione rieducativa della pena sia riportare l’attenzione principalmente sul rapporto tra l’interno e l’esterno del carcere.

Il carcere conserva le caratteristiche di istituzione totale, chiusa e separata tramite un isolamento fisico e simbolico dal contesto della società esterna, caratteristiche del sistema penitenziario ottocentesco, accentuate dal fascismo e ancora rimaste in quello repubblicano, nonostante le successive riforme abbiano apportate modifiche, dal 1975 ad oggi.

Questa separazione interno-esterno colloca chi sta “dentro, “detenuto”, “ristretto” in una struttura impermeabile all’esterno, dove chi sta “fuori”, è “in libertà”, “in sicurezza” poiché i gli autori delle azioni “malvagie” e portatrici di disordine stanno, appunto, “rinchiuse”, dietro le sbarre, le mura, i fili spinati, presidiate delle garitte e dalle guardie.

Questo isolamento nei confronti del mondo esterno rende il carcere una “città nella città” dove si vive un sovraffollamento interno, dove le condizioni non sono quelle dell’abitare che caratterizza l’esterno: “là”, oltre le sbarre e i portoni metallici, le persone sono libere di muoversi, scegliere e vivere. L’interno non può protendersi verso l’esterno, allo stesso modo non giunge all’interno la voce del mondo esterno e il mondo esterno non accoglie e ascolta le voci dell’interno.

Favorire il contatto tra l’interno e l’esterno è quindi decisivo. E può essere realizzato innanzitutto attraverso la territorializzazione della pena, un passo fondamentale, perché recidere il collegamento col territorio, la realtà locale, le famiglie, gli amici, acuisce la separatezza e i vissuti di abbandono al mondo spesante, violento e disumano dell’esperienza detentiva.

Certo non è facile rispondere al disagio della detenzione, ma una via per cercare di uscire dalle ombre della depressione e della perdita di speranza di chi si sente oppresso dal passato e si vede privo di futuro è innanzitutto quella che si basa sul recupero delle relazioni interpersonali e degli affetti familiari, dove è ancora possibile non disperderli. Sarà necessario ripensare il senso delle misure “alternative” che, come efficacemente esprime la stessa scelta linguistica del termine, presuppongono una “norma” nella cui logica si riconosce la centralità del carcere e si vede nella detenzione la formula prioritaria di erogazione della pena.

Ma se le pene diverse dalla detenzione sono delle “alternative” è evidente che le erogazioni diventano “eccezioni”, sussidiarie o premiali. Nella logica rieducativa della pena dovrebbe in teoria essere proprio il contrario, ovvero dovrebbe essere il carcere la misura “alternativa” ove non esistano le condizioni per altre misure che esprimano la funzione rieducativa e l’obiettivo del reinserimento.

Il decreto 2978, approvato il 23 settembre contiene, specificamente all’articolo 30, indicazioni per la revisione dell’ordinamento penitenziario in cui si indicano strumenti per il valore rieducativo della pena, principalmente attraverso facilitazioni per il ricorso alle misure alternative, eliminando automatismi e preclusioni nell’accesso ai benefici penitenziari. Ma soprattutto si indica nella valorizzazione del lavoro uno strumento di rieducazione propedeutico al reinserimento nella società. Inoltre si riconosce il diritto all’affettività come opportunità per la riduzione delle recidive. Ma forse siamo ancora lontani dall’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione.




Vanna Iori

Docente universitaria e Senatrice del Partito Democratico

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